Come deve essere la rinuncia del lavoratore ai suoi diritti?
La rinuncia deve risultare espressamente da atto scritto, oppure da un comportamento concludente
A seguito di diverbio o vertenza con il tuo datore di lavoro, siete giunti ad un accordo che lui vuole tu sottoscriva e nel quale rinunci ad alcune tue pretese. Oppure hai cessato di lavorare presso un’azienda e, l’ultimo giorno di lavoro, ti hanno fatto firmare una “carta” con la quale hai dichiarato di avere ricevuto tutte le tue spettanze e di non avere più nulla a pretendere. Ti chiedi se atti simili siano legittimi e validi, o magari hai avuto un ripensamento e vorresti annullare quell’accordo sottoscritto. Come deve essere la rinuncia del lavoratore ai suoi diritti? Forse non sai che, quando rinunci a qualcosa devi farlo in modo chiaro e solenne e comunque senza condizionamenti, certo di avere capito ciò che stai firmando; diversamente, potrai – a certe condizioni – annullare la transazione sottoscritta. Vediamo come.
Rinunce e transazioni
Il lavoratore è libero di rinunciare ad alcuni propri diritti, sia in corso di svolgimento del rapporto di lavoro, sia alla sua cessazione, purchè si tratti di diritti disponibili e, cioè, di diritti che non derivano da disposizioni inderogabili di legge e da contratti collettivi di categoria. Sono diritti indisponibili, ad esempio, il diritto alla retribuzione minima tabellare, il diritto alle ferie, al riposo giornaliero e settimanale, il diritto al versamento contributivo.
Per contro, sono diritti disponibili, ad esempio, la rinuncia all’indennità per ferie non godute, oppure ad alcuni benefit aziendali, o ancora la rinuncia al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.
Spesso il lavoratore non è a conoscenza del fatto che alcuni dei propri diritti sono irrinunciabili e, pur di salvaguardare il posto di lavoro, oppure per semplice timore, sottoscrive atti a lui decisamente pregiudizievoli.
La legge interviene allora a tutela del dipendente, parte debole del rapporto di lavoro, consentendogli, a determinate condizioni, di impugnare l’atto sottoscritto ed annullarne gli effetti.
Gli atti con i quali il lavoratore rinuncia a propri diritti possono distinguersi in rinunce e transazioni.
La rinuncia è un atto con cui il dipendente manifesta la volontà di non esercitare più un suo diritto. La manifestazione di volontà, per essere valida in tal senso, deve essere manifestata o per iscritto, oppure con un comportamento concludente, che manifesti inequivocabilmente la volontà di abdicare ad un certo diritto.
La transazione, invece, è il contratto con il quale datore e lavoratore pongono fine a una controversia tra gli stessi insorta (o che potrebbe insorgere) facendosi reciproche concessioni. Anche la transazione può essere conclusa per iscritto, oppure verbalmente. La forma scritta è tuttavia necessaria ai fini della prova dell’accordo raggiunto.
L’impugnazione delle rinunce e transazioni
Come detto, il lavoratore spesso non sa che alcuni propri diritti sono irrinunciabili, oppure si vede costretto ad accettare alcuni compromessi per timore di perdere il lavoro. Ecco allora che la legge prevede la possibilità di impugnare gli atti di rinuncia e transazione su diritti indisponibili e di porne nel nulla gli effetti.
L’art. 2113 c.c. prevede, in particolare, che la rinuncia o la transazione possano essere impugnate entro sei mesi dalla cessazione del rapporto, se la sottoscrizione è stata fatta in costanza di rapporto di lavoro, oppure entro sei mesi dalla firma, se questa è avvenuta successivamente alla risoluzione del rapporto.
L’impugnazione può essere fatta in qualsiasi modo, purchè contenga l’espressa e chiara manifestazione di volontà di revocare la rinuncia fatta al proprio diritto: generalmente, tuttavia, l’impugnazione va fatta a mezzo raccomandata a.r. o pec al fine di avere la certezza che controparte l’abbia ricevuta e nel rispetto della forma scritta, quantomeno ai fini della prova.
Gli accordi in “sede protetta”
Le rinunce e le transazioni, invece, non sono più impugnabili quando vengono sottoscritte in sede protetta e cioè in sede sindacale, oppure presso l’Ispettorato del lavoro, o davanti al giudice. In tutti questi casi, infatti, rispettivamente, il conciliatore, la commissione di conciliazione e il giudice certificano la genuina e libera volontà del lavoratore a rinunciare a propri diritti, pertanto non potrà poi esservi più da parte di costui alcun ripensamento.
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