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Bella è il vero mostro di “Povere creature!”

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(@riccardo-manzotti)
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Bella è il vero mostro. Certo, Emma Stone la fa apparire indifesa, offesa, incompleta, ferita, empatica e buona (non vuole risolvere i torti del mondo regalando denaro, peraltro non suo)? Ma Bella è un mostro in realtà, mostro che non sa mai uscire da sé stessa e infatti anche la sua condizione di essere madre di sé stessa e figlia di sé stessa è un capolavoro di autoreferenzialità biologica chiusa in sé stessa. Bella è un mostro perché non ha altra ragione d’essere che sé stessa. 

Bella è il protagonista dell’osannato ultimo film di Yorgo Lanthimos, Povere creature, che ha spopolato durante il mese di gennaio. Siamo quindi oltre il suo ciclo di vita al botteghino ed è possibile proporre qualche considerazione senza temere di anticiparne la trama o di influenzarne il successo. E non diciamo che si tratta di un film di pura fantasia, perché è esplicitamente un film allegorico, con elementi che ricordano le coppie Maria-Rotwang in “Metropolis”, Professor Higgins-Eliza in “My Fair Lady”, e come “Pinocchio” e “Pigmalione” usano il fantastico per presentare una prospettiva della nostra realtà. Qui, sia chiaro, non giudico il film, esteticamente perfetto e recitato con maestria da tutti gli attore (da Emma Stone a Willem Dafoe fino a uno straordinario Mark Ruffalo). Qui, trattandosi di una allegoria, scopriamo il concetto riposto nelle immagini e nelle storia raccontate abilmente dal regista.

In sintesi la trama è la seguente: Victoria, donna probabilmente crudele, si suicida lanciandosi nel Tamigi. Il suo corpo, ancora caldo, viene recuperato dal professor Godwin Baxter che, scoprendo che il cadavere contiene un feto, effettua un trapianto impossibile: il cervello del feto viene posto nel cranio di Victoria che è riportata in vita. La donna ha così una nuova identità, quella di Bella, che deve completare il proprio sviluppo all’interno di un corpo già adulto. Lo farà, in tempi rapidi, attirando l’interesse e la passione di tutti gli uomini che incontra: dal suo pigmalione che, essendo stato castrato da suo padre, non potrà che avere per lei un amore platonico; fino al suo dottore McMcandles, il suo amante di formazione Duncan Wedderburn, passando per una serie infinita di maschi ridotti ad automi prigionieri dei propri istinti, fino alla sua nemesi ovvero il marito di Victoria, il cupo e malvagio generale Blessington. Il film è stato lodato per mostrare il percorso di emancipazione di una giovane donna nonostante una società patriarcale che vorrebbe privarla di autonomia.

Non mi unisco alle lodi. Anzi, al di sotto di questa presunta trama edificante, vedo celarsi un significato oscuro e negativo che divora il valore dell’esistenza dei personaggi. Ovvero, la riduzione della persona al suo corpo e l’incapacità di uscire da una propria dimensione soggettiva fine a sé stessa che, come un buco nero, alla fine traduce la libertà in agire privo di scrupoli. Questa chiusura autoreferenziale è il vero filo rosso che si manifesta in ogni inquadratura del film. Quasi tutti i personaggi sono chiusi in sé stessi e la loro presunta libertà non è altro che l’eliminazione di qualsiasi legame o contatto con gli altri e con il mondo. Per Bella essere liberi vuol dire poter trovare all’interno del proprio corpo la regola dell’esistenza. Corrispondentemente, il corpo viene presentato come una prigione nella quale si vivono inferni e paradisi che però non escono mai dai suoi confini. Il piacere è interno al corpo e l’ossessione con l’anatomia è declinata dalla ricerca all’interno della pelle del senso dell’esistenza.

D’altronde il creatore di Bella – novello Frankenstein ma anche Pigmalione/Rotwand e Professo Higgins – si chiama non a caso Godwin dove il gioco di parole su God è anche un riferimento al secondo cognome (meno noto) di Mary Wollstonecraft Godwin, l’autrice di Frankenstein nel 1818, ed è a sua volta una vittima degli esperimenti crudeli di suo padre che utilizzava il suo corpo per confermare cervellotiche ipotesi sul funzionamento degli organi. Lo stesso Godwin, che nel corso del film si prende diritti divini sulla vita degli altri, lo fa sempre in nome di una presunta ricerca della conoscenza che però non fa altro che ridurre le persone al loro corpo. In punto di morte dirà «quello che mi sta succedendo è veramente interessante» quasi a voler dimostrare che le sue azioni (discutibile) fossero giustificate dall’agire in nome della conoscenza; come se essere il carnefice di sé stessi giustificasse le offese e i torti fatti agli altri. 

Bella viene presentata come un modello di crescita e di emancipazione femminile nei confronti dei maschi insulsi, arroganti, deboli, psicopatici e, generalmente, negatori della sua libertà. E in parte è vero, è difficile immaginare delle figure maschili più deboli e sgradevoli dei comprimari dell’allegoria di Lanthimos, ma dove la conduce il suo percorso? A scoprire l’esercizio libero del sesso – davvero dobbiamo ancora considerarlo una scoperta? – e vivere la propria vita in una autosufficienza emotiva quasi vegetativa. Proviamo a immaginare il suo genere e la sua apparenza fisica cambiate, non una bella giovane donna (che sembra trasformarsi progressivamente in una versione cinematografica di Björk), ma un maschio carnoso e unto: avremmo considerato i suoi ripetuti abbandoni dell’unica persona che le dona un sentimento incondizionato (il dottor McMcandles) solo per fare esperimenti? Che senso avrebbero le sue parole? Che valore avrebbero il suo perseguire il nuovo, solo in quanto tale? È curioso vedere come certi atteggiamenti che condannati nel genere maschile siano diventati oggetto di approvazione nel genere femminile.

Ma consideriamo un altro aspetto mostruoso di Bella: tutto le è dovuto. Lei non deve mai rispondere delle proprie azioni e tutto quello che fa è giustificato dai suoi sentimenti e sensazioni che non possono mai essere giudicati. È un trend comune a molte produzioni americane recenti dove l’eroina è una Mary Sue cui tutto deve essere dato e niente deve essere chiesto, da Ray Skywalker a She-Hulk. Bella prova dolore per le disuguaglianze economiche, ma decide di salvare il prossimo con il proprio lavoro? È pronta a provare qualcosa di meno gradevole in nome di quello che provano gli altri? No, certo che no. Decide di intervenire rubando i soldi di Duncan (perché questo è di fatto quello che fa) e consegnandoli ingenuamente a due marinai che, ovviamente, non li doneranno ai poveri. Tralasciando l’insensatezza del suo gesto, quello che colpisce è che non sente il bisogno di coinvolgere Duncan nell’azione perché non riconosce al suo compagno alcuna autonomia e legittimità etica. Lei ha diritto di disporre degli uomini che la circondano. E dopo che farà? Beh, cercherà un hotel, non sia mai che vada a lavorare!

La vita è un hotel e mai che manchi una cameriera o un maggiordomo solerti. I poveri e i sofferenti, che avevano giustificato il furto del denaro di Duncan, sono ovviamente dimenticati a quel punto. Ma, in fondo, anche l’atto di finta generosità (fare i grandi con i soldi degli altri che razza di generosità sarebbe? Non mi sembra che Bella si possa candidare come novella Robin Hood) non è mosso dall’amore per i poveri, quanto dal bisogno di liberarsi di una emozione (interna). Bella non dona ai poveri per i poveri, ma perché la vista dei poveri le causa dolore e quindi questo dolore deve essere eliminato.

Tornando al sesso, notiamo come il piacere sia quasi sempre considerato esclusivamente come una reazione fisiologica per cui l’interazione con altri esseri umani è esclusivamente strumentale. Duncan vale in quanto capace di fornire una prestazione quantitativamente superiore e più energica della maggior parte degli altri maschi. Il sesso è definito come sussulti focosi, che ovviamente suonano bene, ma non si estende mai oltre. Non ci sono né eros né amore nella vita di Bella. Quello che colpisce è la riduzione della dimensione erotico-sessuale alla fisiologia, al cetriolo infilato nella vagina («ne prendo due grazie! Uno lo mangio …»). Stupisce che molti abbiano visto nella scoperta fisiologica della sessualità un momento di emancipazione, direi che ormai dovrebbe essere un dato di fatto. Evidentemente qualcuno vive ancora prigioniero di una repressione non dichiarata che cerca qualche facile via di fuga.

Il fatto che il pubblico empatizzi con Bella fa supporre che molti vivano in una specie di neovittorianesimo (che sia il politicamente corretto e il mondo woke) dove non si ha libertà di esprimersi? Persino il discorsetto del generale, che qui ha il ruolo grottesco di un cattivo da cartoni animati, prima di tentare l’escissione del clitoride di Bella (anche qui si identifica la parte anatomica con il desiderio erotico), ci ribadisce che è il patriarcato che teme la sessualità femminile e vuole controllarla a ogni costo (anche se, per sua stessa ammissione, è anch’egli vittima della società). Quindi anche il generale è vittima delle stesse regole che sta per far applicare criminosamente su Bella, perché non considerare anche lui una vittima? Tra l’altro, il finale grottesco dove il corpo del generale viene chirurgicamente modificato sostituendo il suo cervello con quello di una capra introduce un clamoroso errore logico. Nella logica del film, se Bella non è Victoria perché è il cervello la sede della persona, allora il corpo maschile che mangia erba alla fine del film non è il generale, ma è la capra. Quindi hanno punito la capra.

Insomma, “Povere creature” è un film falsamente ingenuo che fa leva su una serie di luoghi comune apparentemente rivoluzionari – la scoperta del sesso senza pregiudizi, l’emancipazione femminile, la libertà di scelta di una giovane donna – che non sono più rivoluzionari; potevano essere tali mezzo secolo fa o nell’Inghilterra vittoriana, ma non sono più tali. In compenso, in nome di queste presunte conquiste, ci si avvita in una visione fisiologica ed egoista dell’esistenza che riduce la persona al suo corpo; la vita a secrezione fisiologica, l’eros a stimolazione degli organi.

E Bella? Bella è un mostro, un mostro molto bello, ma una figura negativa che si ritorce al suo interno incapace di far suo altro da sé. Non si può che dare ragione a Duncan nel suo momento più basso, quando è rinchiuso in un non bene identificato manicomio – una scena che ricorda un momento analogo di Renfield nelle varie versioni di “Dracula” che non a caso, per la sua ammirazione/amore nei confronti del vampiro, verrà condotto alla pazzia, non diversamente da Duncan per Bella – quando accusa la sua amata di non essere altro che un mostro mascherato da ragazza innocente e delicata che con la sua mente disseziona e distrugge le altre persone. Se Bella è l’allegoria di una visione dell’esistenza, non si può che esserne angosciati. Parafrasando Goya, il vuoto dell’esistenza genera mostri, per quanto belli e attraenti. Ma sempre mostri.

 
Pubblicato : 23 Febbraio 2024 05:45
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