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A che punto siamo con la ricerca sull’Aids e perché è possibile eliminarlo

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(@chiara-comai)
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Il piano di emergenza americano per l’aiuto all’Aids è in bilico. Un investimento di oltre centodieci miliardi di dollari che negli ultimi vent’anni ha portato gli Stati Uniti a essere il più grande donatore del mondo in questo campo, adesso rischia di non essere rinnovato. Si chiama Pepfar ed è iniziato nel 2003, con la presidenza di George W. Bush. Rinnovato ogni cinque anni, è sempre stato un progetto super partes, lontano dalle divergenze tra i partiti. Quest’anno, per la prima volta, il voto del Congresso non è più così sicuro. Perché conservatori e cattolici temono che in qualche modo i finanziamenti contro l’Aids arrivino anche alle strutture dove si pratica l’aborto.

L’11 settembre sette attivisti hanno occupato l’ufficio di Kevin McCarthy, lo speaker della Camera dei rappresentanti americana, chiedendo il rinnovo del piano. Anche molti Repubblicani si stanno battendo a favore. Lo stesso ex presidente Bush si è detto molto preoccupato: «Abbandonare il nostro impegno significa ritirarsi da vent’anni di progresso inimmaginabile», ha scritto sul Washington Post.

Il Pepfar ha avuto effetti positivi in tutto il mondo e ha ridefinito in maniera radicale la struttura sanitaria intorno all’Aids. È uno degli esempi di impegno politico e finanziario che può fare la differenza. Le donazioni, non solo quella americana ma anche di altri Stati, case farmaceutiche e privati, hanno permesso di progredire molto in termini di prevenzione, contenimento e cura dell’Hiv. L’obiettivo ultimo è terminare l’Aids, la malattia portata dal virus, entro il 2030.

Un’impresa non così semplice: solo nel 2022 l’Hiv ha causato la morte di seicentotrentamila persone in tutto il mondo, quasi il triplo rispetto al Covid-19. Un virus che dall’inizio del Duemila è stato contratto da almeno sessantacinque milioni di persone, di cui solo venticinque milioni si sono salvate. Un virus che, secondo alcuni scienziati, non avrà un vaccino ancora per molto tempo. Fino a oggi la medicina è riuscita a contenerlo solo grazie a grossi investimenti. E ne serviranno ancora altri per arrivare a un obiettivo che non è una chimera, ma resta tutt’altro che semplice da raggiungere.

Oggi ci sono venti milioni di persone in cura. In vent’anni è stato salvato il trentotto per cento di chi ha contratto il virus. Ma l’Hiv è ancora in circolazione e solo l’anno scorso ha infettato ancora 1,3 milioni di persone. Rispetto al 2010, l’anno scorso in Est Europa i casi sono aumentati del quarantanove per cento, in Medio Oriente del sessantuno per cento. Ma il continente di gran lunga più colpito resta quello africano. Su trentanove milioni di persone positive attualmente, più della metà vive in Africa.

Secondo l’Economist, ci sono due soluzioni. Inventare nuove medicine, e quindi possibilmente un vaccino, oppure raggiungere quante più persone possibile con le tecnologie esistenti. La prima sembra lontana, perché il virus dell’Hiv è facilmente mutabile, anche se il vaccino «può essere vicino». L’unica strada è quella di insegnare all’organismo come produrre anticorpi, in modo da poter affrontare un’ampia gamma di ceppi virali. E dunque si potrebbero dover creare tre, quattro o cinque vaccini diversi da somministrare nell’ordine corretto. Aziende farmaceutiche come Moderna e BioNTech stanno utilizzando la tecnologia a mRna per accelerare il processo. Ma «anche gli ottimisti non si aspettano di raggiungere il successo in questo decennio».

Tra le risorse esistenti, la più vincente sembra essere la strategia “95-95-95”, individuata da Unaids, l’organismo delle Nazioni Unite nato per porre fine all’Aids entro il 2030. Secondo questo metodo, esiste uno scenario ideale e raggiungibile, a cui tutti gli Stati devono aspirare: che il novantacinque per cento delle persone con l’Hiv sia a conoscenza di averlo, di queste che il novantacinque per cento sia in trattamento antiretrovirale e che il novantacinque per cento di chi è in cura sia considerato «viralmente soppresso», ovvero abbia una carica virale talmente bassa da non poter trasmettere l’Hiv a livello sessuale.

Poi, esistono delle tecnologie esistenti per prevenire il virus. Laddove non ci si può affidare al preservativo, una soluzione può essere assumere il farmaco PrEP, profilassi pre-esposizione, una pastiglia da prendere tutti i giorni che protegge dall’Hiv al novantanove per cento. Al momento ci sono un milione e mezzo di persone che ne beneficiano, ma non è ovunque così semplice accedervi. Soprattutto nel continente africano, gli ostacoli possono essere culturali (fidanzati che percepiscono la PrEP come un segnale di infedeltà o mancanza di fiducia) o economici.

All’inizio degli anni Duemila la PrEP costava circa diecimila dollari all’anno. Oggi il prezzo è sceso a quarantacinque dollari, grazie alle donazioni e agli sconti delle case farmaceutiche. E infatti il numero di chi ne beneficia è aumentato del doppio in pochi anni, dal quindici per cento nel 2017 al trenta per cento nel 2021.

Tra le soluzioni all’orizzonte c’è una iniezione dal nome cabotegravi, della casa farmaceutica ViiV, con una durata di due mesi. Questo rende la cura molto meno invasiva, e facilmente nascondibile. Però al momento è costosa e soprattutto non è disponibile ovunque, tantomeno in Africa, dove ce ne sarebbe più bisogno.

Ma la priorità è testare quante più persone possibile. Ciò che frena sono è soprattutto motivi culturali. Per gli uomini in alcuni Paesi è imbarazzante andare in una clinica, per esempio. E poi, lo stigma può essere aggravato ancora di più dalla legge, come nei centosessantotto Paesi dove il lavoro sessuale è ancora criminalizzato.

E poi, sono cruciali le scelte finanziarie. I progressi maggiori riguardano i Paesi in cui si è investito di più, come in Africa orientale e meridionale. Lì le infezioni da Hiv sono state ridotte del cinquantasette per cento dal 2010. O ancora, tra le donne incinte con il virus l’ottantadue per cento nel 2022 hanno avuto accesso al trattamento, il doppio rispetto al 2010. Questo ha permesso di dimezzare le nuove infezioni tra i bambini, registrando il numero più basso dagli anni Ottanta.

Eppure il gap di fondi destinati all’Hiv nei Paesi a basso e medio reddito si sta ancora espandendo. Se la scelta di porre fine all’Aids è quasi solo politica e finanziaria, un primo passo si vedrà con l’esito del voto al Congresso americano del 30 settembre.

 
Pubblicato : 29 Settembre 2023 05:00