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Dimissioni imposte al lavoratore sotto minaccia: sono valide?

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(@angelo-greco)
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Dimissioni forzate in seguito a minacce di licenziamento: quando sono valide e quando invece possono essere revocate.

Le dimissioni sono spesso un atto non voluto. A volte avvengono “per giusta causa”, ossia per gravi violazioni del datore di lavoro (come l’omesso pagamento dello stipendio o una situazione di mobbing). In tal caso è dovuta l’indennità di mancato preavviso, il risarcimento e l’assegno di disoccupazione (Naspi). In altri casi possono essere “imposte” dal datore di lavoro che pone, come alternativa, il licenziamento.

Più volte la Cassazione si è occupata di spiegare se sono valide le dimissioni imposte al lavoratore sotto minaccia. La risposta non è così scontata, dipendendo dal contesto lavorativo e dalle modalità con cui viene attuata tale minaccia. Cerchiamo di spiegarci meglio.

 Quando le dimissioni sotto minaccia sono considerate valide?

Le dimissioni rassegnate da un lavoratore sotto minaccia di licenziamento possono essere valide. Ciò accade quando il dipendente ha effettivamente commesso azioni dannose per l’azienda. Si pensi al caso di un direttore di filiale bancaria che, con i propri comportamenti, ha determinato un pregiudizio al patrimonio del datore di lavoro. In questi casi, la minaccia di licenziamento è considerata giustificata e non costituisce una violenza morale in grado di annullare le dimissioni. Così ha deciso la Cassazione con sentenza n. 7523/15 del 23 marzo.

Difatti, a ben vedere, in ipotesi del genere non può neanche parlarsi di una vera e propria minaccia: il datore pone il dipendente in condizione di scegliere tra un sicuro e legittimo licenziamento, e l’atto di dimissioni per “salvare la reputazione”.

È chiaro tuttavia che chi opta per il licenziamento può poi chiedere l’assegno di disoccupazione (Naspi), anche se detto licenziamento avviene per giusta causa. Non vi ha invece diritto chi si dimette volontariamente.

Cosa si intende per “violazione morale” nelle dimissioni?

La violenza morale, che può rendere nulle le dimissioni, si verifica in presenza di un comportamento intimidatorio e oggettivamente ingiusto da parte del datore di lavoro. Il che presuppone quindi che il dipendente non abbia commesso alcun grave illecito disciplinare. Tuttavia, nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, il datore di lavoro aveva legittimi motivi per minacciare il licenziamento, rendendo le dimissioni valide.

Nel caso specifico della sentenza della Cassazione, la dipendente era responsabile di danni significativi all’azienda, che ha dovuto pagare somme sostanziose ai clienti. La sua condotta fraudolenta ha impedito al datore di lavoro di esercitare un controllo efficace, giustificando così le minacce di licenziamento e azione risarcitoria.

Si possono revocare le dimissioni?

Ricordiamo che, con il Jobs Act e la riforma del lavoro intervenuta nel 2015, le dimissioni devono essere necessariamente comunicate in forma telematica all’Inps, altrimenti non sono valide.

In ogni caso, anche quando la comunicazione è avvenuta correttamente, il dipendente ha 7 giorni di tempo per revocare le dimissioni, utilizzando la medesima procedura che aveva utilizzato invece per formalizzarle. Trascorso questo termine, il dimissionario non può più procedere alla revoca.

Secondo la Cassazione (sent. n. 30126/2018), tuttavia, il dipendente può revocare le dimissioni anche dopo i 7 giorni se fornisce la prova di averle rassegnate in stato di stress e di turbamento psicologico.

Deve risultare però che il dipendente ha comunicato il recesso dal contratto di lavoro non perché pienamente capace di comprendere il senso della propria scelta ma a causa di un forte stato emotivo.

Approfondimento

Revoca delle dimissioni: come e quando?

 
Pubblicato : 28 Novembre 2023 17:30