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Pseudonimi e altri strategemmi per rendere la scrittura più facile

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(@pasquale-panella)
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E se mi firmassi Carlos Vanera? Carlitos Vanera: ci ho fatto l’attore con questo nome. Un nome da capopopolo sudamericano, poi despota. Ecco: se non avessi un nome ma uno pseudonimo? Tutto sarebbe più facile, soprattutto fare soldi (si scrive per fare altro?).

Scrivere sarebbe veramente scrivere, non quell’usare il rigo come un posatoio per svolazzanti caratteri che mangiano stati d’animo e defecano punteggiatura. Scrivere sarebbe scrivere senza fare tante storie (certe espressioni sono a volte ironiche, anzi di più: sarcastiche, sferzanti, punitive; mi sa che con le frasi fatte ci si fustiga, alla fine questo è l’uso che se ne fa; mi sa che questo principio, o fine, vale per tante entità, materiali e anche spirituali: l’uso cui sarebbero destinate all’inizio non è l’uso che se ne fa alla fine; principio e fine sono termini che fluttuano nell’arte retorica, e l’arte retorica attrae come i giri alle giostre).

Scrivere sarebbe veramente scrivere, vediamo di non perdere il filo. Scrivere sarebbe fare i fatti, farli sulla carta. Fatti e non parole, si dice (sono ironici eccetera, i modi di dire; parentesi subito chiusa). Niente parole allora, è così che si scrive. Però chiacchiere sì: la famosa bravura nei dialoghi. Ultimamente le battute scendono una dopo l’altra come le rapide, e il bello sta proprio in questo: non rintracciare più chi dice che. È la pagina che parla, e la carta canta. Questo mi piace, altro che i personaggi, altro che introspezione e psicologia. Come in pittura l’anima sul volto. Mai vista, l’anima sul volto. C’è chi si sforza, lo so, c’è chi si applica, appuntisce la pupilla, pungerebbe qualche guancia, fosse mai un gluteo diafano dell’anima, tanto per strapparle uno strillo d’orientamento. Mai vista l’anima sul volto, anzi nei ritratti riusciti è palese il totalitarismo del volto, il volto contro il resto del mondo.

La voracità famelica non solo della bocca ma anche del naso aspiratore, le avidissime orecchie golose, spesso una sola, e gli occhi, gli occhi: mangiare con gli occhi è prerogativa degli occhi dipinti, pozzi insaziabili. La migliore pittura non emana ma fagocita le anime (se vogliamo chiamare così gli interessi) di studiosi e di curiosi (sì, anche studiose e curiose, come no; questo contino maneggiare le desinenze sessuali mi farà diventare cieco).

La scultura, dici? L’anima presa a martellate e a scalpellate? Ma certo che scappa anche dal marmo, scossa, tremante, impaurita, l’anima, però avvantaggiata in quanto già volatile. E anche l’animo, sì certo, più pesante ma abile nel salto essendo un ranocchio. Ma sì, se ne fuggono con la polvere alzata dai colpi e con le schegge guizzanti come appunto i ranocchi dallo stagno.

Insomma, l’arte mette paura all’anima. E all’animo, che sguazza nella psicologia tra fanghiglie e radici intricate, ampie foglie e ninfee impressioniste. Ma la polvere, la polvere, ecco, ma sì, quel velo leggero è l’anima che col tempo torna e si posa, l’anima tremolante nei raggi obliqui di luce, che poi trova pace sui nostri piani e ripiani. Ma è così timida, l’anima?

Ah, ecco, sì, la psicologia dei personaggi, m’ero perso appresso all’anima. Può essere che ci si perda appresso all’anima? Che proprio l’anima entri in scena per traviarci con la sua timidezza? Quale scena?

La psicologia dei personaggi. Solo a me sfugge? Solo io, dopo che ho letto (poco perché non so leggere) qualche po’ di racconto o di romanzo vengo a sapere che la psicologia dei personaggi resta impigliata a quelle righe (quelle righe spinose). La lanugine di un gregge interiore? È anche tosatura la lettura? Solo io ho quella particolare insensibilità che mi permette di non sentire il belato psichico delle creature scritte? Non vedo i gomitoli ottenuti avvolgendo i fili della matassa che il personaggio regge a braccia aperte all’altezza del petto, la sua psicologia offerta ai ferri sferruzzanti del lavoro a maglia narrativo.

Nell’intervallo, al cinema, entravo in sala con la cassetta orizzontale al ventre, le cinghie sulle spalle, e spargevo a voce la mia merce: mostaccioli, cremini, fusaglie, sostantivi, aggettivi, verbi, avverbi, particelle, punteggiatura, grammatica, sintassi, birra, aranciata, liquirizia, castagnaccio, olive dolci, bruscolini, lecca lecca, mosciarelle, interiezioni, parentesi, gomma americana, psicologia niente, non la tratto, bada che il film ricomincia.

Appena ieri ero già tredicenne, seduto sul davanzale di una finestra e sfogliavo la mia formazione letteraria, le riviste accumulate in un solitario inverno dalla mia solitaria zia Luisa per la mia radiosa estate. Davvero radiosa: hai presente quando vai in una direzione e allo stesso tempo in tutte le altre a raggiera e sai quant’è legittimo rubare la patina dorata del mondo? E non ti senti circondato che da fessi? Quindi puoi farlo, e allora lo fai e lo farai. Seduto sul davanzale verniciato di blu sottomarino (era un antico davanzale in legno, ma che ne sapete?) leggevo (avrei disimparato poi) l’immortale letteratura settimanale di Confidenze e Intimità con anche qualche sosta in Grand Hotel. E, devo dirlo, la finestra affacciava su (è incredibile ma è vero come una cosa enigmatica o enigmistica) una segheria, come la finestra di Hemingway a Parigi durante la sua formazione. La mia era una segheria di legni molto aromatici, tagliati in pezzi grandi per i mobili, più piccoli per le scatole, e a sfoglie per l’intarsio. I tagli liberavano gli aromi.

Ecco, vorrei dire a queste righe qui presenti, vorrei dire loro: è anche da quella segatura che venite (e a te che leggi: è lì che ti porto, senti l’aroma inebriante del legno, l’ebbrezza sprigionata da una sega). Su quelle riviste conobbi la vera vita letteraria, la vita scritta in fretta e anche senza tanta preparazione, come in fondo si vive, la vita scritta da chi si pagava la vita scrivendola, mettendola sotto sforzo, spremendola, traendone succhi di dozzinale esperienza (o per caso ci sottoponiamo a un continuo processo di raffinazione qui nel mondo?), tramando trame che giravano come ruote dentate, affettatrici, eliche per la carne, vidi l’amore irriso come è giusto che sia, sbattuto come un polpo sul marmo, l’amore tentacolare, stordito, sperduto, finito male perché così il racconto finiva meglio, oppure ebete ossia finito bene, però nello squallore di non avere più altro da dire dopo il punto, e il racconto finito era la fine di tutto. Mi è sempre parso che quelle novelle portassero un assalto durissimo all’amore, di spregiudicata fermezza: non si ama che una volta, poi si riama ossia si tradisce.

Ero un ragazzino. Vedevo (e mi è bastato per sempre) le mie pagine future così: piegate a barchette, di carta ovviamente. Il ragazzino stava lì che le guardava. Seduto come una gazzella le osservava, il mento sulle ginocchia, le cosce sui polpacci, gli stinchi abbracciati, seduto sui talloni, l’ho detto: una gazzella a riposo. Stava lì che guardava le barchette arrivare, le guardava dal bordo di un’ansa, e un venticello leggero le avviava su quell’acqua tranquilla, e là, più delle ninfee (stiamo eccedendo in svenevolezza, ti avviso) quelle barchette si aprivano spianandosi in pagine (eccole spiegate, le cose scritte, capito sì?). Le guarda distese sull’acqua, docili e molli. Seduto come una gazzella e, allo stesso tempo, un leone. Scrivere è fare i conti, altro che storie. E io sto cominciando a scrivere, forse.

(23 continua)

 
Pubblicato : 28 Marzo 2024 05:45