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L’uso sbagliato che facciamo del verbo «peritarsi»

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(@maurizio-assalto)
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Ci sono delle parole che si usano senza conoscerne bene il significato, o meglio (peggio) ignorandolo proprio, ma confidando che l’uditorio aggiunga di suo il senso latitante. Caso esemplare, il verbo “peritarsi”. Non quello di più recente (e per fortuna limitata, segnatamente burocratica) attestazione, derivato dall’aggettivo “perito”, e che nelle tre persone singolari dell’indicativo si pronuncia con l’accento sulla i (“io mi perìto” ecc.), bensì quello presente fin dai primordi del volgare, con l’accento sulla e. Chiedete a qualcuno a caso di darvene una definizione, e lo metterete in difficoltà. Nondimeno sarà pronto a farne uso, all’occasione, con l’intento di conferire una certa enfasi al proprio eloquio.

Il caso di “peritarsi” ricorda un po’ quello di “paventare”, un altro verbo (di cui questa rubrica si è già occupata) usato il più delle volte fuori luogo, come se volesse dire “presentare”, “prospettare”, “palesare”: fraintendimento abbastanza inspiegabile, visto che l’etimologia lo riporta al latino pavēre, “avere paura, temere”, e anche senza conoscere il latino tutti sappiamo cosa significano parole che a quella si connettono, come pavido, spaventare, spavento. A differenza di questo verbo, “peritarsi” è meno frequente, anche se non abbastanza da evitare che nella quasi totalità dei casi, molto più spesso di “paventare”, sia usato a sproposito.

Del resto (altra differenza) lo penalizza pure una etimologia non altrettanto trasparente, su cui si sono esercitati nei secoli fior di filologi e linguisti: dal francese Gilles Ménage che nel Seicento lo aveva riportato proprio a pavēre, al tedesco Friedrich Christian Diez che due secoli più tardi aveva congetturato una non meno improbabile derivazione dal latino appectorari, “avvicinarsi col petto”. Più sicura, ormai assodata, l’ipotesi avanzata alla fine dell’Ottocento dal filologo danese Johan Storm, che ne ha indicato l’origine in un altro verbo latino, il deponente pigritari, forma intensiva di pigrari, “essere pigro”, ma anche “indugiare, esitare”, come si trova per esempio nella Vulgata di Atti degli apostoli IX, 38 «Ne pigriteris venire usque ad nos!», «Non indugiare, vieni da noi!».

In coerenza con l’etimo latino, il verbo compare fin dai primi secoli della nostra lingua con il senso di «esitare a compiere un’azione per incertezza, per timore di conseguenze negative, per mancanza di volontà o di determinazione; riluttare, non osare. – Anche: indugiare, nicchiare; avere dubbi e incertezze». Così il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, che cita, tra gli altri, il frate pisano Domenico Cavalca, 1270-1342 («Io ti priego che tu mi scrivi e non ti peritare») e illustra le altre possibili accezioni: «vergognarsi di un’azione determinata, farsi scrupolo di un comportamento disonesto, biasimevole, audace» (Iacopo Nardi, 1476-1563: «Perché ristorar non è possibile / van mi par l’offerir, tacer mi perito»); «mostrare soggezione o timidezza in presenza di una persona, sentirsi a disagio o imbarazzato» (ancora Cavalca: «Santa Elisabetta si doleva infra sé che non aveva dimandata la Vergine Maria di niente, perocché si peritò per lo predetto difetto che commise»); «essere incerto, titubante, sorpreso o stupito» (Leon Battista Alberti: «Tu ora ferma contro a me la tua qual sia opinione, e non peritare»).

Da quei tempi aurorali deve essere cambiato qualcosa, se oggi al verbo “peritarsi” è stato abusivamente attribuito un senso che con quello originario non intrattiene alcun legame, né semantico né logico. Non avendo sottomano l’abbondante esemplificazione quotidiana, scritta e orale, ho fatto un esperimento molto artigianale, digitando su Google la terza persona singolare del passato prossimo, “si è peritato”: delle prime 25 occorrenze (poi mi sono stufato, il trend era ben definito) soltanto tre erano corrette. Nelle restanti ventidue – riconducibili a articoli di giornale, lanci d’agenzia, disegni di legge, resoconti di sedute parlamentari, sentenze della Cassazione, comunicati sindacali, pareri di studi legali, note di istituti culturali (!) e associazioni sportive – il senso (insensato) oscillava tra quello prevalente di “curarsi, preoccuparsi, prendersi la briga, avere lo scrupolo” (un esempio tra i tanti: «Nessuno si è peritato di trascrivere e forse nemmeno di leggere…»), con eventuale accentuazione sarcastica o di biasimo, interpretabile come “si è avventurato, si è spinto, si è permesso, ha avuto l’improntitudine” («Il qui presente ministro si è peritato di dichiarare…»); e quello meno frequente ma significativamente documentato di “impegnarsi, esercitarsi, affinarsi” («Il buon giornalismo come scuola di sobrietà e concretezza: L. M., autorevole critico letterario, ci si è peritato per decenni»).

Ovviamente, gli stessi riscontri si ottengono se, anziché “si è peritato”, si cerca su Google “si perita”. Ho provato anche così, e riporto un solo esempio, per la sua involontaria ironia: «Il redattore della sentenza si perita [ossia “si preoccupa”] di specificare…»; l’involontaria ironia sta nel fatto che l’articolo era intitolato «L’ignoranza corre su Internet». Curiosamente, il rapporto tra uso scorretto e uso corretto si inverte quando il verbo “peritarsi” è preceduto da “non”. In questi casi, due volte su tre, “non si perita” e “non si è peritato” hanno il senso proprio di “non esita/ha esitato, non ha/ha avuto remore” («Un grande direttore, per di più giovane, non si è peritato di rifiutare un’edizione critica confessando in una intervista la sua diffidenza per operazioni a suo dire intellettualistiche»): a dimostrazione di una vaga, latente e inconsapevole percezione del significato reale del verbo, che incoerentemente si sfarina quando dalla forma negativa si passa a quella positiva.

L’uomo, sosteneva Heidegger, più che parlare, è parlato dal linguaggio. Non è sempre vero, ma qualche volte sì.

 
Pubblicato : 25 Marzo 2024 05:45