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Le sberle ai bambini, le donne corcate e lo slittamento del tabù

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(@guia-soncini)
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«Possibile che su ogni argomento culturale o politico si debba essere o favorevoli fino all’eccitazione, o contrari fino allo spregio? […] Potremmo, per cortesia, reintrodurre la nobile categoria del “così così”?». Lo scriveva Michele Serra dieci anni fa ieri, quando “Sole a catinelle”, il film di Checco Zalone uscito cinque settimane prima, si accingeva a superare negli incassi “Titanic”, fino ad allora detentore d’un qualche record al botteghino italiano.

Il superamento sarebbe avvenuto dieci anni fa oggi, il 4 dicembre del 2013, e questo non è un articolo per rimpiangere i bei tempi in cui un incasso era solo un incasso (ma un po’ sì), o per rimpiangere gli intellettuali cui non piacevano i fenomeni di massa (un po’ sì, ma nello specifico, nonostante io soffra sempre a contraddire Serra, “Sole a catinelle” non è per niente così così: è il miglior Zalone, l’ho rivisto la settimana scorsa piangendo dal ridere).

Questo è un articolo sull’articolo che, da quando ho visto “C’è ancora domani”, medito di scrivere e poi non scrivo, e quindi forse più che un articolo è una preterizione, più che una riflessione sui tabù è un tabù.

C’è una cosa, tra quelle che non tornano in “C’è ancora domani”, tra le scelte inverosimili che per ragioni artistiche qualunque autore può fare e non ha senso rimproverargli, c’è un dettaglio che secondo me ci parla del nostro tempo più forte delle cose che il pubblico e la critica hanno scelto di notare.

A un certo punto del film, la figlia adolescente lascia bruciare le patate perché impegnata a civettare con un ragazzino. La madre dice d’essere stata lei, certa che per quelle patate bruciate qualcuna dovrà essere corcata di mazzate, e determinata a proteggere la figlia: si farà pestare lei.

È, in generale, il grande rimosso delle storie d’epoca: si mettono in scena sempre madri protettrici che si sacrificano, ricordo solo un Losito in cui la madre dirottava sulla figlia l’aggressività del marito, ma trattandosi appunto di Teodosio Losito (più impresentabile da vivo di quanto lo fosse Checco Zalone dieci anni fa) questo sforzo di verità nessuno l’ha apprezzato.

Eppure chiunque ci fosse, nel Novecento, sa che i figli si picchiavano con una certa disinvoltura: era parte del modo in cui venivano educati. Certo, c’erano le degenerazioni e i genitori che menavano i figli per sfogarsi o per certe loro dinamiche di coppia (ciao mamma e papà: visto che brava, che faccio reddito delle vostre disfunzioni?); ma poi c’era la normalità. E la normalità era che nessuno s’impressionava per due sberle a un bambino.

Le patate bruciate sono l’unico scorcio in cui Paola Cortellesi decide di farci intuire – solo intuire, non sia mai – la possibilità che Valerio Mastandrea picchi la figlia, che comunque sta per sposarsi: è una giovane donna. I figli maschi del 1946, quelli sono bambini del 2023: maleducati come si permettono d’essere solo i bambini di questo secolo, senza che nessuno neanche gli dia mai un coppino, con un rispetto per la loro capricciosità che s’è visto solo in questo secolo.

Il fatto è che quella di “C’è ancora domani” è una casa di poveri, dove una moglie poteva essere picchiata. Per la borghesia che si dava un tono, picchiare i figli era normale e consigliabile, ma picchiare la moglie era un gigantesco tabù. Era una cosa che facevano i disperati, i reietti, i delinquenti.

Poi il tabù è slittato. Adesso, le mie coetanee dicono con assoluta serietà che, se il marito si permettesse di dare uno scappellotto ai figli, divorzierebbero istantaneamente. Adesso, se con un bambino alzi non dico le mani ma anche solo la voce, vieni guardato come la feccia dell’umanità da chiunque. Vieni guardato come una volta i ricchi guardavano i poveri che picchiavano le mogli. Adesso, alzare le mani sui bambini è diventato un tale tabù che non riusciamo a inserirlo neanche in un film d’epoca: uh, guarda, un 1946 di montessoriani, nei bassi proletari.

Se le cronache continuano a riportare di donne vessate, maltrattate, addirittura uccise, forse quel tabù per noialtre che osiamo essere adulte è decaduto, e forse bisognerebbe capire come mai. Se si possa ricostruire. Cosa serva per ottenere, per gli uomini padronali, la riprovazione sociale che c’è per chi va a letto coi consanguinei o per chi mangia carne umana. Ma non è di questo che volevo parlare (disse lei, che ne stava parlando da decine di righe).

Volevo parlare del perché non ne ho scritto. Volevo parlare di me, che dodici anni fa salivo su un palco a Roma per dire ai dirigenti del Pd che dovevano smetterla di snobbare il pop, e a ripensarci sembra un altro secolo. Ora che il disastro è compiuto per tutti, ma specialmente per la sinistra, all’inseguimento del pop senza capirlo ma sperticandosi comunque in lodi.

Volevo parlare di come dieci anni fa un successo non fosse ancora prescrittivo, anzi semmai il contrario: se incassavi tanto c’era qualcosa che non andava, se incassavi sfracelli Serra ti diceva che eri così così, gli articoli di Luca Sofri e Curzio Maltese non li ricopio per non infierire ma sembra parlino di Angelo Duro, e Philippe Daverio accostava Zalone a Berlusconi dicendo «tra trent’anni parleranno di questo ventennio, a livello mondiale, come il ventennio del trash».

Adesso, se provi a dire qualcosa di “C’è ancora domani” che non sia «sommo capolavoro», «film necessario», «licenziate chi non gli ha dato i finanziamenti», «date la guida della sinistra a Paola Cortellesi», allora sei sicuramente sessista, certissimamente non in contatto con lo Zeitgeist, e plausibilmente una persona insensibile e priva di gusto. Adesso che andiamo così all’inseguimento del consenso che l’unica cosa che vogliamo, se di mestiere facciamo i critici, è acciambellarci nel tepore di chi quel consenso se l’è conquistato. Adesso che «così così», d’un prodotto di successo, non si permette di dirlo più nessuno.

Ho sentito, in un’intervista, Alice Rohrwacher dire «sembra che l’unico sguardo possibile sia diventato quello del doversi identificare con un protagonista», ho annuito fortissimo, ho pensato che avesse un coraggio stratosferico, perché se c’è una garanzia d’insuccesso è dire al pubblico di questo decennio che non sei disposta a fargli da specchio.

Poi, sabato, ho visto un video della Rohrwacher col suo protagonista; invitavano gli spettatori a chiedere ai cinema di proiettare “La chimera”, il suo film che evidentemente si è fermato al gradino precedente dei film che non trovano pubblico: non trova neanche le sale.

Ho ripensato con tenerezza ai saperlalunghisti che mi spiegavano che il successo della Cortellesi avrebbe contagiato tutti, era il ritorno del cinema in sala, avrebbe trainato gli altri film. E invece, com’è ovvio, fa quello di cui veniva dieci anni fa vibratamente accusato Zalone: corre da solo. Gli esercenti vogliono l’incasso sicuro (per una volta che ce n’è uno), mica farsi garanti della varietà dell’ecosistema.

E il successo della Cortellesi è solo il successo della Cortellesi, non il segno che col diritto di voto non ci menano più, né quello che siamo tornate a vedere il cinema in sala, giacché tutto è, “C’è ancora domani”, tranne che un film. È un modo di posizionarsi nella società, è un’esperienza, è un evento, è tutte quelle parole postmoderne che usiamo coi prodotti disposti a farci da specchio.

Ed è, forse, il segno che si possono costruire nuovi tabù sociali. Da affiancare a quelli che si sono cristallizzati nei secoli, l’incesto, il cannibalismo: quest’anno ci abbiamo aggiunto quello di dire che sia così così un film che incassi anche solo la metà di Zalone (sì: inizialmente con meno della metà delle copie), se a girarlo è una donna.

Magari, applicandoci, riusciamo a resuscitare il tabù di menarle, le donne: se chi lo fa venisse considerato col disprezzo che spetta a chi osa criticarle, il problema si risolverebbe in frettissima.

 
Pubblicato : 4 Dicembre 2023 05:45