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La fobia trasversale della tecnoscienza

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(@riccardo-chiaberge)
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A un certo punto della vita, John von Neumann, genio della matematica e della fisica e padre dei moderni computer, si converte allo studio della biologia. Ad affascinarlo, come racconta Benjamín Labatut nel suo incantevole e inquietante “Maniac(Adelphi), è proprio il fatto che questo campo della scienza sia «ancora immune dalla logica, governato da strane forze del caso e del caos che ancora non siamo in grado di assoggettare e sfruttare».Il «portentoso disordine» in cui vivono gli esseri biologici diventa per von Neumann una vera e propria ossessione. «Perché tutte le cose che non riusciva a controllare o a comprendere lo facevano infuriare», ricorda nel libro la moglie Klara.

Quando poi, nel 1955, gli diagnosticano un tumore alle ossa in stadio avanzato (probabilmente dovuto alle radiazioni subite a Los Alamos durante i test atomici), dalla biologia lo scienziato passa bruscamente alla teologia: per usare le parole di un altro testimone evocato da Labatut, il fisico Eugene Wigner, «aveva sviluppato un rapporto estremamente morboso e superstizioso con la propria infermità: considerava il cancro non come una parte di sé, ma come un’entità del tutto estranea, un essere malvagio che gli stava crescendo dentro, colonizzando i suoi tessuti, estendendosi e corrompendo non solo la sua carne, ma anche l’anima». E contro questo nuovo nemico l’unica difesa è «la forza dell’irrazionalità», la riscoperta di quella dimensione religiosa che «è intrinseca alla nostra specie come il linguaggio o i pollici opponibili».

Non riuscendo a trovare equazioni o algoritmi che possano mettere ordine nel caos delle cellule, il grande matematico non può fare altro che tornare alla fede dei suoi padri, legandosi intorno al braccio i tefillin e le scatolette di preghiera con dentro i rotoli della Torah. Perché il cancro è per definizione invincibile. E tale continuiamo a considerarlo. Mentre i computer si sono evoluti tanto da non somigliare più, se non lontanamente, ai loro progenitori ideati da von Neumann, i nostri cervelli sono rimasti fermi a settant’anni o a un secolo fa. Per questo non può che lasciarci interdetti il titolo del nuovo, spiazzante libro di Roberto Burioni, “Match point. Come la scienza sta sconfiggendo il cancro (La nave di Teseo): quasi che il mostro sia un innocuo tennista, facile da eliminare con qualche smash o qualche volée ben assestata.

Circondati come siamo da vicende individuali di tutt’altro tenore che troppo spesso ci toccano da vicino, la metafora suona arrogante, se non offensiva. Poi però leggiamo e cominciamo a capire. Grazie ai progressi delle scienze biomediche, la visione del corpo umano è completamente cambiata: non più un disordine incontrollabile, refrattario a ogni logica, ma una macchina perfetta, dove tutto è regolato dalle informazioni contenute nel Dna.

In questa armonia prodigiosa, il cancro è il risultato della ribellione di una singola cellula, una sola tra migliaia di miliardi: una cellula «rinnegata che se ne frega del bene dell’organismo e si fa i fatti suoi, smette di comunicare con le altre e non partecipa più alla vita controllata e coordinata dei vari organi». Una scellerata che mira soltanto a replicarsi il più possibile, dando vita a un vero e proprio «organo supplementare e indesiderato».

Dieci milioni di persone muoiono ogni anno nel mondo a causa di questa ribellione cellulare. Ma, assicura Burioni, oggi abbiamo le armi per stroncarla. Prevenzione, diagnostica precoce e sempre più sofisticata, biopsie liquide, farmaci di precisione, anticorpi monoclonali, vaccini a mRna: tutto l’arsenale che mette a nostra disposizione la tecnologia. La medicina ha sposato le macchine di von Neumann, e grazie a questo matrimonio siamo vicini al “match point” che ci farà vincere la partita.

Perfino l’intelligenza artificiale, che in certe applicazioni, come il riconoscimento facciale, può rappresentare una minaccia per i diritti civili, è un’arma formidabile: permetterà di elaborare dati epidemiologici su popolazioni molto ampie e di fare rapidamente l’analisi genetica di un paziente per identificare meglio chi è a rischio di sviluppare un certo tipo di tumore e aiutare a prevenirlo.

Parliamo della famosa, o famigerata, “tecnoscienza”.  La scienza che si fa prassi e bricolage, che gira le viti del mondo, che manipola le nostre vite. Non la scienza iperurania, un po’ esoterica, dei buchi neri e bianchi alla Rovelli, ma la scienza, tutta terrestre e invasiva, della farmacogenomica e delle terapie geniche.

Nel nuovo dizionario dei luoghi comuni “tecnoscienza” è una di quelle parole-feticcio che – ricordate la Frau Blucher di Frankenstein Junior ? – fanno suonare alto un nitrito (o un raglio) dai più diversi settori dell’emiciclo: come Big Pharma, neoliberismo, lobby, élite, multinazionali, extraprofitti o troika. E se il neoliberismo è inscindibile dall’aggettivo “selvaggio”, tecnoscienza fa tutt’uno con “strapotere” o “tirannia”.

Per la semplice ragione che ottiene dei risultati: mentre ai tempi di von Neumann i calcolatori erano in grado di governare (e anche distruggere) il macrocosmo fuori di noi ma non il microcosmo dentro di noi, oggi si direbbe che succeda il contrario. In un mondo fuori controllo, dove si riescono a fermare le pandemie ma non le guerre, medici e genetisti hanno più potere di Joe Biden e di Vladimir Putin. E forse per questo fanno così paura.

La fobia della tecnoscienza ha il potere di saldare le due ali estreme. Da una parte i filosofi di sinistra come Giorgio Agamben e Donatella di Cesare con la loro critica della “biopolitica” e della dittatura sanitaria durante la pandemia, o i verdi alla Bonelli da sempre in trincea contro gli Ogm in agricoltura, dall’altra i maestrini del “cambio di narrazione” meloniano, che ambiscono a rimpiazzare l’egemonia asfissiante della sinistra e del torvo “pensiero unico”.

Marcello Veneziani, per esempio, che stigmatizza «la scienza come fede assoluta, la tecnica come regina del mondo, il vaccino come battesimo della nuova religione». O Pietrangelo Buttafuoco che in odio all’Occidente della modernità senz’anima e del “laicismo esacerbato” vede nell’Islam (si è convertito) il migliore baluardo dei valori tradizionali, ma si trova a proprio agio anche a Mosca: «Sono stato recentemente in Russia – ha scritto tempo fa – e ne sono tornato favorevolmente colpito della integrità spirituale di quel popolo, votato interamente alla religione della Tradizione e incardinato nel Sacro». O Marcello Foa, l’ex-presidente Rai che invita in trasmissione un medico no-vax sospeso dall’Ordine e non fiata nemmeno quando quello dice che l’anti-Covid «non serve a nulla perché non è un vaccino» e dietro alla campagna di vaccinazione c’era «una volontà evidente di fare del male». Ma perfino un liberale come Ernesto Galli della Loggia, qualche settimana fa sul Corrierem deprecava il «dispositivo congiunto della scienza e della tecnica» che porterebbe l’umanità a «un’artificialità meccanizzata».

Scenari allucinanti in stile Labatut. Niente paura però, c’è chi veglia su di noi: primo fra tutti il cognato d’Italia, Francesco Lollobrigida, che tiene duro sul divieto delle carni sintetiche, per difendere il nostro modello di civiltà contadina dalla minaccia dei nuovi Frankenstein e schiudere ai giovani un radioso avvenire da bovari.

 
Pubblicato : 24 Ottobre 2023 04:45